Ancora in memoria di Carlo Gasparini, pubblichiamo il ricordo di Marko Mosetti apparso sulla rivista “Alpinismo Goriziano”, ottobre-dicembre 2011.
Sulle pareti del disimpegno, tra le camere da letto della casa in cui vivo, sono appesi alcuni quadri. Ciascuno, come dovrebbe sempre essere, ha un significato preciso per noi che li viviamo. Ce n’è uno al quale tengo in maniera particolare e che mi ha seguito attraverso diversi traslochi. È una foto in bianco e nero, formato 20×30, con una cornice molto semplice, essenziale. L’autore, Michele Fenzl, è uno dei fotografi goriziani che apprezzo di più. Il soggetto è un nudo maschile. È stata la stessa persona ritratta a donarmela, parecchi anni fa oramai. Non è inusuale che amiche in visita notino la foto, si incuriosiscano e mi chiedano di presentargli il soggetto ritratto.
La prima volta che lo vidi fu alla stazione ferroviaria, più di 30 anni fa. Non ci conoscevamo allora. Non ricordo con precisione quale fosse l’anno, ma con ogni probabilità lui doveva avere 17 anni e io quindi 25. Non so cosa di lui avesse attratto la mia attenzione quel giorno, ma era qualcosa che mi inquietò perché mi fece, per un attimo, dubitare di me e di alcune certezze che avevo e ho tuttora.
Lo conobbi qualche anno dopo. Carlo stava dietro al banco del mio locale preferito a spinare birra. Sera dopo sera era inevitabile che ci mettessimo chiacchierare. Scoprimmo in breve di avere molti interessi e passioni comuni. La montagna era uno di questi. Pur avendola praticata fin da bambino non mi ero mai dedicato all’arrampicata, non me ne ero interessato, almeno fino a quel momento. Lui invece aveva già frequentato, giovanissimo, il corso roccia della sezione, ma senza ulteriori sviluppi. Ne parlammo ed in breve ci accordammo per andare ad arrampicare assieme. Le prime volte, a Casa Cadorna, calavamo le corde dall’alto. Progredimmo, lui più velocemente. Se il fuoco che ci bruciava era lo stesso, la differenza di età, di tempo a disposizione e di capacità, si faceva sentire. Nonostante il divario che si faceva sempre più ampio, uscita dopo uscita, continuammo egualmente e per parecchi anni, anche se non più in modo così esclusivo, almeno per quello che riguarda l’arrampicata. Carlo aveva bisogno di qualcuno che stesse al suo livello e che potesse accompagnarlo sulle vie più dure. Di me doveva, a quel punto, prendersi cura e cercare di farmi progredire. Egualmente continuavamo a cercarci per le uscite a Casa Cadorna, Duino, Sistiana, Lijak, Bela, Napoleonica, in montagna e, soprattutto, nella vita di ogni giorno. Non c’era solamente la roccia: sarebbe stata ben poca e fredda cosa, in fondo, a legarci.
In tempi di Facebook, quando l’amicizia si richiede e si concede a colpi di mouse, attraverso uno schermo, e gli amici si contano a centinaia se non a migliaia, arriva il solito ricercatore statunitense a insegnarci che l’amicizia è altra cosa. Che una persona nel corso di una vita riuscirà al massimo ad annoverare 150 amici veri. Per quel che mi riguarda anche questa cifra mi pare esagerata. Ho sempre dato all’amicizia un significato più alto ed esclusivo. Alla fine dei miei giorni gli amici che sarò riuscito a contare saranno molti di meno. Carlo è certamente uno di questi. Idee, sentimenti, libri, film, cibo, vino, curiosità, una vita intera di interessi e di molto altro ci ha unito.
Mi aveva colpito fin da subito il rigore che esigeva da se stesso, l’attenzione ai particolari, la concentrazione che riservava e richiedeva al compagno, si trattasse di una passeggiata o di un’arrampicata, ma anche la totale assenza di competitività. Non era la difficoltà in sé ad attirarlo ma la bellezza, il godimento estetico di una via, di un passaggio, unito al fatto di mettersi alla prova e di alzare continuamente il limite.
Ricordo il giorno che lo accompagnai alla Forcella Berdo. Voleva scendere il canalone con gli sci. Io dovevo ritornare ai piani del Montasio, prendere l’automobile e scendere in Val Saisera a recuperarlo. Ci eravamo dati un tempo limite superato il quale, se non lo avessi visto arrivare, avrei dovuto allertare i soccorsi. Quando comparve in fondo al sentiero, al limite del tempo massimo, stravolto da quella prima ripetizione solitaria, le prime parole che pronunciò furono: – In un cesso del genere non ci torno mai più. Non ha senso un rischio così alto per una discesa così brutta. – Eppure quella via l’aveva desiderata e sognata, fin dal racconto che ne fecero Mauro Rumez e Claudio Gardossi, i primi a percorrerla con gli sci, e dall’aura del nome del primo, Emilio Comici, che l’aveva salita valutandola con passaggi di V. La giudicò comunque negativamente e non volle che una volta a casa informassi i quotidiani locali di quella sua straordinaria performance solitaria.
L’arrampicata, l’allenamento, le vie e le difficoltà erano però solamente un pretesto, la maniera che avevamo inconsciamente trovato per scambiarci esperienze, vivere, dare aria e cibo alla nostra amicizia. Era raro che mentre arrampicavamo si parlasse di quello che stavamo facendo. Si, lui a volte, spesso, mi riprendeva perché facessi attenzione a un nodo, a una manovra, al modo di fare sicurezza. A queste cose era molto attento fin da tanto tempo prima del corso e del conseguimento del patentino di Guida Alpina, il primo per Gorizia. Altrimenti era un fitto scambio di esperienze, le più varie, letture, pensieri, ragionamenti, sogni. Che continuava poi, mani sporche di magnesite e terra, unghie rotte, dita spellate, immancabilmente in qualche osmizza. Allora i discorsi si arricchivano ulteriormente e si sommavano le valutazioni sulle difficoltà della roccia con quelle di una malvasia o di un teran, di una pancetta, del paesaggio che si godeva dalla terrazza del locale. Anche questo dopo faceva parte del nostro penetrare il territorio, fonderci con la natura che ci circondava, esserne partecipi.
Profondamente e inguaribilmente goriziano, ipercritico nei riguardi della sua città ma, come tutti noi che la amiamo, irrimediabilmente attratto e legato a ogni sua pietra, luce, umore, espressione, atmosfera. Una delle prime uscite che compimmo assieme fu per metterci alla ricerca della lapide che in un angolo remoto della Val Tribussa ricorda il punto della caduta mortale di Nino Paternolli, della posizione della quale allora si era persa memoria. Passammo giornate tra quei boschi tormentandoci lungo torrenti e canaloni, valutando ogni labile indizio, avvicinandoci alla meta e, lo sapevamo, senza raggiungerla. Arricchendoci però dei contatti umani con i valligiani nella vecchia osteria, la stessa dove Ervino Pocar arrivò stravolto a chiedere soccorso per Nino caduto, 60 anni prima. E parlammo con un vecchio che all’epoca giovanissimo assistette alla scena.
Il Carso, con tutto il suo potenziale nascosto e tuttora inespresso, fu il grande innamoramento. Si, c’erano i parchi giochi, ma Carlo non concepiva di limitarsi a vivere l’ambiente per quell’unico aspetto. Era curioso e sorpreso da come mutava il paesaggio: il ritorno degli uliveti e il piacere di assaggiare quel nuovo olio che portava con sè aromi così nuovi e nello stesso tempo ben noti e antichi; il lavoro dell’uomo e i prodotti della terra; le persone e la loro storia. Tutto si univa, tutto doveva unirsi per rendere più ricco e vivo il territorio. Quel territorio in particolare, per il quale sognava e vagheggiava un bel futuro.
In quegli anni lontani comparve sul muro dell’edificio all’imbocco della strada del Vallone una scritta a caratteri cubitali, neri, a spray: 100% PURO CARSO. Quando la vidi, eravamo assieme in macchina diretti a una delle nostre sessioni d’arrampicata, esclamai: – Che figata! È una scritta geniale, da gran copywriter, ed è pure messa nel posto giusto. – Mi confessò che l’aveva tracciata lui la notte precedente. Fino a qualche anno fa la scritta, oramai sbiadita, era ancora visibile. Mi sono sempre scordato di ricordargli che aveva bisogno di una ravvivata.
Curioso della natura: fiori, piante, animali, stelle. Stare a stretto contatto con l’ambiente, non aveva importanza se montagna o spiaggia, parete o bosco. Era sufficiente starci in maniera consapevole, conoscendo, scoprendo, capendo. Ci scambiavamo libri, film, informazioni, esperienze, con la stessa frequenza, facilità, e certezza di capirci con la quale ci passavamo le scarpette d’arrampicata, le scarpe da montagna, gli scarponi da scialpinismo. Avevamo lo stesso numero di piede.
Non era inusuale che all’ora di cena il campanello di casa suonasse e la sua voce al citofono chiedesse cosa si mangiava, o se ci fosse una nuova bottiglia da stappare. Ed era una soddisfazione condividere con lui il cibo e il vino.
Un giorno decise di andare in Sud America per rimanerci almeno un anno. Mi sentii solo e spaesato. Non solamente perché stavo perdendo il mio compagno d’arrampicata. Fu una gioiosa autentica sorpresa quando, nemmeno venti giorni dopo suonò nuovamente alla mia porta: con il Sud America aveva chiuso con largo anticipo.
Non che tutto fosse così idilliaco nei nostri rapporti. Non aveva un carattere facile, e più di qualche volta i nostri incontri si trasformavano in scontri. Che il giorno dopo erano dimenticati.
Non so cosa accadde nel corso della salita allo spigolo Deye-Peters alla Torre della Madre dei Camosci ma dalla fine della via non ci parlammo più. Scendemmo lungo la Gola Nord-Est in un silenzio irreale, ciascuno chiuso nei sui mugugni, con le ombre che si allungavano fuori e dentro di noi. Eravamo soli sulla montagna, alla fine di settembre e in mezzo alla settimana. Arrivammo alla tenda che avevamo piazzato nei pressi del Rifugio Pellarini chiuso per lavori. Rifeci lo zaino e mi apprestai a smontarla. Seccamente mi disse che ci avrebbe pensato lui, di andare avanti. Cominciai così a scendere nel bosco e accesi la pila frontale ché la notte era calata. Da dietro il Lussari cominciava a salire la luna quando mi raggiunse e sorpassò intimandomi: – Spegni quella luce, mona, che se vedi benissimo! – Furono le ultime parole che udii da lui per i tre mesi a venire. Poi un giorno ricomparve, come se nulla fosse accaduto, e ci fossimo lasciati il giorno prima. Portava un regaletto per Enrico, mio figlio.
Ci fu un periodo in cui aveva avuto l’incarico di fare lavori di manutenzione in una casa, una villa usata per le vacanze, su un’isola della laguna di Grado. Era inverno. Quando passava a cena da noi ci raccontava della laguna, dell’isola, degli animali che l’abitavano e che riusciva a vedere. Un giorno mi telefonò dicendomi che erano arrivati stormi di non so più che razza d’uccelli migratori e che si erano piazzati proprio attorno all’isola. Sapendo della fissa che in quel periodo Enrico aveva per le bestie, mi propose di portarlo giù alla prima occasione, prima che gli uccelli s’involassero nuovamente. Ci organizzammo per un paio di giorni dopo. Quando passò a prenderci Enrico aveva cambiato idea e, capriccio di bambino, non voleva più andarci. Pianti e urli. Non ci fu verso. Ricordo l’espressione di grande delusione che saliva in volto a Carlo, e non tanto per noi adulti ma proprio per il bambino che avrebbe desiderato stupire. L’esatto contrario di quando, con un senso di orgoglio che in quella forma non gli conoscevo, mi annunciò che sarebbe diventato padre a sua volta.
Una notte di bivacco riuscii a confessargli, ridendo, i pensieri di quel lontano, inconsapevole, primo incontro in stazione. Il buio ci faceva da scudo ma ebbi chiara, come l’ho ancor oggi, la visione del suo sguardo ironico e sorpreso e il sorriso sornione. Ne ridevamo ancora ogni tanto, quando lo ricordavamo.
In quel minuscolo corridoio, sulla parete di fronte a quella dove sta appesa la foto di Carlo c’è un modesto dipinto a olio, un paesaggio. È la Spiaggia del Principe, quella minuscola falce di ghiaia schiacciata tra il Castello di Duino che la sovrasta, e le falesie che sfilano verso Sistiana. È un luogo che ho sempre considerato magico: la quintessenza del Carso, l’immagine dell’asprezza che si bagna dolcemente nell’unico pertugio di morbidezza all’estremo nord del Mediterraneo. Punto di sintesi e saldatura di popoli, culture, linguaggi, modi di vivere. È indicativo che li sopra sia ospitato il Collegio del Mondo Unito e che siano proprio i ragazzi provenienti da ogni angolo del globo i più assidui frequentatori di quel minuscolo lido.
Una serie di circostanze casuali, fortuite, mi ha portato giù, quella domenica di quasi metà novembre, sulla Spiaggia del Principe, giusto in tempo per assistere alle manovre dell’elicottero del 118, i soccorritori che venivano calati con il verricello pochi metri più in là, sulle falesie sottostanti il Sentiero Rilke, il gommone dei Vigili del Fuoco, e vivere l’illusione che si trattasse di un’esercitazione. A prescindere da chi fosse l’infortunato. Illusione spazzata via più tardi dalla telefonata del Presidente della sezione che quando arriva la domenica pomeriggio difficilmente porta notizie allegre. Vista così la storia appare come un incredibile incastro di coincidenze, segni, quasi di premonizioni. Per chi ci crede. Se ce l’avessero raccontata in un’osmizza, davanti a una frittata e un mezzo di malvasia, avremmo sicuramente riso e classificato tutto nella cartella cazzate.
Invece sono qua, senza una delle persone che più mi sono state care, con la quale ho tanto vissuto, imparato, sognato.
Con un amico in meno con il quale dividere un vino che è diventato più amaro del dovuto e non va né su nè giù. Ma no, e non è retorica, fino a che ci sarà memoria continuerà a vivere, con noi, ad accompagnarsi a sua figlia Camilla, a Enrico, a me, a tutti quelli che gli hanno voluto bene. E ci sono ancora un sacco di cose che può insegnarci.
Magari, come quella volta del Sud America, inaspettatamente suonerà alla porta e chiederà: – Cosa se bevi de bon stasera? –
E ci sveglieremo da questo brutto sogno.
Bello ricordo. Grazie per ci condividere.